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Recensione: Alba Sporca, di Miguel Sousa Tavares

Alba sporca
Alba sporca

Quanto può essere sporca un’alba? Quanto può pesare un’ingenuità, un breve momento di buio nella gioventù, nel decorso di una vita?

L’alba di cui parla Manuel Sousa Tavares, autore portoghese tradotto in 11 lingue e pubblicato in 30 paesi, premio Grinzane-Cavour nel 2006 per Equatore, non ha i connotati di un periodo della giornata, non è una di quelle albe in riva al mare o affacciati alla finestra di una baita montana, quando scorgi i barlumi della luce di un nuovo giorno.

L’alba di Tavares è sporca come le coscienze, come le realtà reali di una società che cambia,  mettendosi alle spalle dignità e orgoglio dei tempi passati, quando ci si batteva per un ideale. È sporca come uno stupro, un’allucinante omesso soccorso, una corsa contro l’alcol e la depravazione, come il tacere per non veder compromessa la propria esistenza futura.

Questo accade nel romanzo di Tavares. Questo, e molto altro.

La vicenda vede protagonista Filipe Madruga, architetto del comune di Vila Nova d’Odemar, nell’Alentejo. Egli è sì integerrimo e corretto, ma nasconde una spina nel proprio passato. Anzi, più di una.

Nel tempo, Filipe ha scoperto di dovere la sua esistenza a persone con le quali non ha legami di sangue. L’unica con cui è legato per ragioni biologiche, sua madre, si è lasciata morire giovanissima. Il padre (o almeno quello che Filipe considera tale, per lungo tempo) parte per l’avventura rivoluzionaria che avrebbe dovuto dare la terra a chi la lavora, nelle Unità Collettive di Produzione.

La Rivoluzione dei Garofani lo attira ed egli molla il piccolo borgo di Medronhais da Serra, il figlio e i genitori (la moglie, Maria da Graça, già non esisteva più per lui). Sarebbe morto schiacciato da un trattore.

Filipe, ormai trentenne, riallaccia periodicamente i suoi legami con il piccolo paesino, abbandonato da tutti tranne che da nonno Tomaz.

A Pasqua e a Natale, l’architetto Madruga torna dal nonno, l’unico che non ha mai voluto abbandonare Medronhais da Serra, fino a quando “… di giorno parlava con gli animali e la notte con le stelle del cielo, fin dove arrivava la vista, fin dove arrivava l’eco della sua voce. Non c’era più nulla a far ricordare che un giorno Medronhais era stato un paese abitato dalla gente e dalla vita, dall’allegria e dalla tristezza, come tutti i paesi e tutte le vite“.

Filipe ricorda così il signor Octávio, il barbiere del Salone Moderno, l’unico insieme al dottor Chagas a ricevere il giornale; il Caffè Centrale, la maestra Fátima, la prima a innescargli dei pensieri erotici fino a quando, dopo esser stata concupita da padre Anselmo, è costretta a lasciare il paese.

E ancora la bella Gualdina, che Filipe ammirava nuda nella vasca da bagno, come ritratta nelle foto che il fratello di lei, il brufoloso Gualter, gli vendeva di nascosto per dieci escudos.

E tanto altro, come l’amore per il calcio della squadra del Porto, vista per la prima volta al televisore a colori di Manuel da Toca, o il ricordo delle saporite pietanze che preparava nonna Filomena o le battute di caccia al cinghiale vissute con nonno Tomaz, o il sapore della merenda con le cipolle, perduto per sempre per andar via, per vedere il mare.

La vita, come detto, riserva a Filipe strani e improvvisi ribaltamenti, rese di conti che è lui stesso a innescare rifiutando un tentativo di corruzione. La sua esistenza, quindi, interferisce con due figure che sono state importanti nel suo passato e che egli incontra dopo tanti anni: il politico Luìs Morais, futuro primo ministro portoghese, e l’affascinante magistrato Maria Rodrigues.

Scelte difficili dovrà compiere Filipe, secondo coscienza.

Sullo sfondo, le vicende politiche del Portogallo negli ultimi trent’anni, dal rovesciamento della dittatura di Salazar nel 1974 fino ai giorni nostri. Fiumi di denaro piovuti su un paese ancora alla ricerca della modernità, del proprio contesto sociale, tra corruzione e intrighi, abusi e prese di posizione.

La penna di Tavares è linda, secca, tratteggia scene e personaggi senza orpelli, senza fregi inutili. Belle le concatenazioni, fascinosa l’ambientazione (il Portogallo letterario non sarà solo Saramago!).

Peccato, a mio modesto parere, per un finale un po’ morbido. Le ultime pagine mi sono sembrate in bilico tra l’esigenza di una trovata ad effetto e la fretta di concludere. Qualcosa di elaborato non avrebbe potuto che elevare la qualità generale. Nel complesso, un libro che mi è piaciuto, di quel gradimento che poteva però essere maggiore.

Alla prossima, senza rancore.

Enzo D'Andrea

Enzo D’Andrea è un geologo che interpone alle attività lavorative la grande passione per la scrittura. Come tale, definendosi senza falsa modestia “Il più grande scrittore al di qua del pianerottolo di casa”, ha scritto molti racconti e due romanzi: “Le Formiche di Piombo” e "L'uomo che vendeva palloncini", di recente pubblicazione. Non ha un genere e uno stile fisso e definito, perché ama svisceratamente molti generi letterari e allo stesso tempo cerca di carpire i segreti dei più grandi scrittori. Oltre che su MeLoLeggo, scrive di letteratura sul blog @atmosphere.a.warm.place, e si permette anche il lusso di leggere e leggere. Di tutto: dai fumetti (che possiede a migliaia) ai libri (che possiede quasi a migliaia). Difficile trovare qualcosa che non l’abbia colpito nelle cose che legge, così è piacevole discuterne con lui, perché sarà sempre in grado di fornire una sua opinione e, se sarete fortunati, potrebbe anche essere d’accordo con voi. Ama tanto la musica, essendo stato chitarrista e cantante in gruppi rock e attualmente ripiegato in prevalenza sull’ascolto (dei tanti cd che possiede, manco a dirlo, a migliaia). Cosa fa su MeLoLeggo? cerca di fornire qualcosa di differente dalle recensioni classiche, preferendo scrivere in modo da colpire il lettore, per pubblicizzare ad arte ciò che merita di essere diffuso in un Paese in cui troppo spesso si trascura una bellissima possibilità: quella di viaggiare con la mente e tornare ragazzi con un bel libro da sfogliare.

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