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Gesù. Il film di una vita, di Carl Theodor Dreyer

La Storia di Gesù ha la S maiuscola, quella che è stata tramandata nel tempo e si è infissa nelle nostre menti in maniera indelebile. In tanti hanno cercato di raccontarla e, a dire il vero, non abbiamo elementi per dire quanto ci siano riusciti e quanto no. Magari, emerge più il gusto personale che l’analisi di fatti, scene, racconti. Inevitabile, per una storia che risale a oltre duemila anni fa. Eppure, nonostante tutto, essa appare sempre fresca e ricca di interessanti spunti e risvolti. La cinematografia mondiale, poi, ha dato alle antiche testimonianze l’immagine, il suono, la sequenza visiva, l’interpretazione personale del regista. Sono venuti fuori dei Gesù romanzati, altri scarni ed essenziali, altri ricchi di poesia e musica, altri ancora interpretati in chiave moderna. Poi, ci sono quelli nei quali la ricostruzione storica è fondamentale, padrona del narrato.

Gesù. Il film di una vita
Gesù. Il film di una vita

L’opera di Carl Theodor Dreyer appartiene a quest’ultima categoria.

Dreyer è regista di riferimento nel cinema mondiale, nonostante abbia realizzato pochi film e sia considerato fin troppo rigoroso nella sua esposizione. Eppure, proprio il suo Gesù. Il film di una vita, rappresenta il film che, se fosse stato portato sul grande schermo, l’avrebbe consacrato. La sceneggiatura del film, rivista e tradotta dalla versione giudicata più completa dopo tagli su tagli, si presenta al lettore, grazie a Iperborea che lo ripropone al pubblico (con traduzione di Mauro Vanelli), come un romanzo ricco di riferimenti, di solennità, di richiami che destano la meraviglia anche su dettagli che credevamo assorbiti e che invece avevamo più o meno colpevolmente dimenticato.

La travagliata storia della sceneggiatura e la sua mancata realizzazione mi portano al curioso parallelismo con un altro film mai realizzato, Leningrado di Gabriele Salvatores, altro testo portato in giro con grandi speranze ma che, alla fine, può ambire a giustizia solo dal testo cartaceo e non più da una pellicola cinematografica. Curiosamente, i due testi mi sono capitati più o meno nello stesso periodo, ed è esaltante ma allo stesso tempo mortificante leggere dei capolavori che la massa, quella attratta dalle immagini più che dalla parola scritta, difficilmente conoscerà. Un po’ come la tavola imbandita i cui commensali non hanno grande appetito e si dovrà buttar via tanta roba.

La trama è nota, ovviamente. Non c’è colpo di scena o azione che non sia già conosciuta a tutti. Eppure, il racconto, coi suoi riferimenti storici precisi, con la maniacale cura anche delle usanze civili e religiose del popolo ebraico per conferire veridicità a una vicenda da sempre sospesa tra il reale (i miracoli per i quali è stato fornito un tentativo realistico di spiegazione) e la leggenda, prende e si lascia leggere istruendo, ammaliando, incantando e lasciando il dovuto amaro in bocca per una sorte segnata, nota a tutti, ma che non cessa mai di commuovere.

Dreyer usa spesso richiamare la storia, ma non si contenta di questo. Il testo è stato rimuginato per trent’anni, diventa occasione per paragoni, per parallelismi tra romani e nazisti e tra l’occupazione di Israele e quella della sua Danimarca, il governo ebraico e i collaborazionisti della seconda guerra mondiale. Inevitabile, l’accento sull’opposizione rivoluzionaria degli ebrei, i quali vedono in Gesù l’uomo e non il simbolo spirituale, ma colui che scaccerà gli invasori e ripristinerà la libertà della sua terra. Nell’analisi e nel racconto di Dreyer, però, risalta ancor di più l’errore tremendo degli ebrei, quel non comprendere che la rivoluzione che Gesù porta in terra è spirituale, che nessuna violenza potrà mai imporre il regno di Dio, e che quindi il sacrificio ci sarà ma avrà finalità differenti.

La storia, alla fine, dovrà rendersi conto del proprio errore, e accetterà la verità scritta nella Storia, la silenziosa rivoluzione spirituale che i popoli hanno imparato ad accettare, anche se poi la pace e la tolleranza sono spesso lontano dal mondo degli uomini. Ma questo è un altro discorso.

Resta il racconto, la rigorosa descrizione degli eventi e l’utilizzo di tecniche narrative e registiche adeguate per sovrapporre gli strati, le sottotrame, facendo così risaltare meglio la narrazione principale. Un film vagheggiato già dagli anni trenta dello scorso secolo e portato dentro come un figlio meraviglioso, desiderato, che però non vedrà mai la luce.

Nonostante tutto, però, non ci scoraggiamo.

Quel film l’abbiamo visto lo stesso. Leggendo.

Enzo D'Andrea

Enzo D’Andrea è un geologo che interpone alle attività lavorative la grande passione per la scrittura. Come tale, definendosi senza falsa modestia “Il più grande scrittore al di qua del pianerottolo di casa”, ha scritto molti racconti e due romanzi: “Le Formiche di Piombo” e "L'uomo che vendeva palloncini", di recente pubblicazione. Non ha un genere e uno stile fisso e definito, perché ama svisceratamente molti generi letterari e allo stesso tempo cerca di carpire i segreti dei più grandi scrittori. Oltre che su MeLoLeggo, scrive di letteratura sul blog @atmosphere.a.warm.place, e si permette anche il lusso di leggere e leggere. Di tutto: dai fumetti (che possiede a migliaia) ai libri (che possiede quasi a migliaia). Difficile trovare qualcosa che non l’abbia colpito nelle cose che legge, così è piacevole discuterne con lui, perché sarà sempre in grado di fornire una sua opinione e, se sarete fortunati, potrebbe anche essere d’accordo con voi. Ama tanto la musica, essendo stato chitarrista e cantante in gruppi rock e attualmente ripiegato in prevalenza sull’ascolto (dei tanti cd che possiede, manco a dirlo, a migliaia). Cosa fa su MeLoLeggo? cerca di fornire qualcosa di differente dalle recensioni classiche, preferendo scrivere in modo da colpire il lettore, per pubblicizzare ad arte ciò che merita di essere diffuso in un Paese in cui troppo spesso si trascura una bellissima possibilità: quella di viaggiare con la mente e tornare ragazzi con un bel libro da sfogliare.

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