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La fabbrica dell’assoluto, di Karel Čapek

Ci sono stati tempi in cui la narrativa fantautopistica aprì le piste alla successiva fantascienza, lasciando qua e là i germi di una filosofia applicata all’umanità e allo stesso progresso che guardava oltre, perché la mente arriva prima del tempo in certi luoghi e a certi ragionamenti.

Ovviamente, utopia significava di per sé sogno irraggiungibile, per via dei naturali limiti dell’uomo e per la sua naturale tendenza a distruggere o utilizzare male gran parte di quello che gli viene donato.

La fabbrica dell’Assoluto di Karel Čapek (Voland, con traduzione di Giuseppe Dierna) si inserisce, in parte, in questo contesto.

La fabbrica dell'assoluto

Un ingegnere inventa un carburatore capace di disintegrare completamente la materia, convertendola in energia utilizzabile per l’industria con notevoli vantaggi.

Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, avrebbe detto Lavoisier. Gli svantaggi? Trattandosi in ultima analisi di energia nucleare, si penserà possano essere le scorie, le radiazioni. No, cari signori! Si tratta di un gas residuo che una volta inalato innesca negli esseri umani forti stimoli religiosi e slanci di bontà.

Be’, non ci sarebbe niente di male, se tutto fosse così semplice. Ma sappiamo che nulla è semplice, neppure nelle cose semplici.

Il carburatore viene proposto a un affarista, un certo Bondy, il quale tenta di trasformarlo in un affare di proporzioni mondiali. Marek, l’inventore, lo mette in guardia. Secondo lui quel gas è l’Assoluto, cioè Dio sceso in terra. E chiunque lo inala perde il controllo della propria personalità.

Come tutti gli affaristi, Bondy sottostima gli effetti negativi della scoperta di Marek, vedendo davanti a sé soltanto gli orizzonti positivi, la fama e la ricchezza.

Ben presto, però, gli effetti collaterali superano quelli positivi perché l’uomo è sostanzialmente incapace di utilizzare a lungo i grandi poteri a fin di bene, e mentre fiorisce il tentativo di un “comunismo mistico” in cui si cerca di mettere in comune beni e sentimenti, dall’altro insorge la Chiesa e le religioni perché Dio non può essere di questa terra, ma un’entità sovrannaturale per cui sfuggente a ogni tentativo di razionalizzazione. Sorgono questioni tra le varie religioni e i vari stati, vengono coinvolti le banche, gli apparati capitalistici, i capi di stato e infine gli eserciti, perché l’uomo ha sempre come soluzione finale la guerra. D’altra parte, le catastrofi industriali portano presto alla penuria di certi beni e alla sovrabbondanza di altri che non hanno più un prezzo ma sono altrettanto inutili e la macchina dell’economia si inceppa e poi si arresta. I diplomatici non riescono più a essere diplomatici, le manie di grandezza fioriscono e con esse le manie di conquista di territori altrui, gli scontri religiosi s’inaspriscono e tutto porta all’annientamento di interi eserciti.

Un libro terribile, ci sarebbe da pensare. Certamente, come concetto di base lo è anche perché profetico a modo suo, trattandosi di un testo uscito a cavallo delle due guerre mondiali (a proposito, la guerra viene definita nella traduzione “Guerra Più Grande”) ma molto vicino alla prima. In queste pagine c’è traccia degli effetti di quello che era stato e Čapek, scrittore ceco, ne approfitta per lanciare un monito (purtroppo inascoltato) su quello che sarebbe venuto in seguito.

Di certo, la Fabbrica dell’Assoluto è un romanzo che apre gli occhi, primo della trilogia che vede anche Krakatite e La guerra delle salamandre, un tris di libri che analizzavano i grandi problemi del tempo come le guerre, il colonialismo esasperato e la crisi dell’uomo.

Si arriva a parlare di un Dio che ha effetti travolgenti sull’umanità. Un romanzo che parla dell’uomo e dei suoi rapporti col progresso, con i suoi simili, della sua irrefrenabile voglia di prevalere su di loro. La Fabbrica dell’Assoluto riesce a farlo con uno stile intriso di satira che oggi fa sorridere ma che a quei tempi deve aver dato fastidio a molti. A rendere ancor più piacevole la lettura, i disegni originali dell’Autore in perfetto stile satirico dell’epoca.

Rinvigorito da una brillante traduzione, questo libro non mancherà di incuriosire una certa frangia di lettori, quelli che appunto cercano una letteratura più sotterranea, quasi dimenticata perché giudicata ormai anacronistica. Oggi, per fortuna, grazie a Voland la Fabbrica dell’Assoluto è disponibile anche per le generazioni più giovani, affinché capiscano che certe derive non vanno mai sottovalutate perché il tempo passa, cambiano i secoli, ma l’uomo rimane sempre sé stesso.

Enzo D'Andrea

Enzo D’Andrea è un geologo che interpone alle attività lavorative la grande passione per la scrittura. Come tale, definendosi senza falsa modestia “Il più grande scrittore al di qua del pianerottolo di casa”, ha scritto molti racconti e due romanzi: “Le Formiche di Piombo” e "L'uomo che vendeva palloncini", di recente pubblicazione. Non ha un genere e uno stile fisso e definito, perché ama svisceratamente molti generi letterari e allo stesso tempo cerca di carpire i segreti dei più grandi scrittori. Oltre che su MeLoLeggo, scrive di letteratura sul blog @atmosphere.a.warm.place, e si permette anche il lusso di leggere e leggere. Di tutto: dai fumetti (che possiede a migliaia) ai libri (che possiede quasi a migliaia). Difficile trovare qualcosa che non l’abbia colpito nelle cose che legge, così è piacevole discuterne con lui, perché sarà sempre in grado di fornire una sua opinione e, se sarete fortunati, potrebbe anche essere d’accordo con voi. Ama tanto la musica, essendo stato chitarrista e cantante in gruppi rock e attualmente ripiegato in prevalenza sull’ascolto (dei tanti cd che possiede, manco a dirlo, a migliaia). Cosa fa su MeLoLeggo? cerca di fornire qualcosa di differente dalle recensioni classiche, preferendo scrivere in modo da colpire il lettore, per pubblicizzare ad arte ciò che merita di essere diffuso in un Paese in cui troppo spesso si trascura una bellissima possibilità: quella di viaggiare con la mente e tornare ragazzi con un bel libro da sfogliare.

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