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La camera oscura di Damocle, di Willem Frederik Hermans

Che ci si creda oppure no, esistono elementi nella nostra vita che condizionano o condizioneranno ciò che siamo, come ci comportiamo, le nostre aspirazioni, paure, manie e relazioni sociali. Un difetto fisico, una mancanza affettiva, uno squilibrio personale in seguito a un evento mal metabolizzato: tutto può concorrere a questo risultato. Ne sono pieni i testi di psicologia, senz’altro.

E su questo gioca Willem Fredrick Hermans, autore neerlandese tanto celebrato in patria quanto colpevolmente trascurato all’estero, uno dei massimi scrittori dei Paesi Bassi che con questo La camera oscura di Damocle (Iperborea, con traduzione di Claudia Di Palermo), invero, lascia una corposa testimonianza della propria bravura, a distanza di quasi settant’anni dalla prima apparizione in libreria.

La camera oscura di Damocle
La camera oscura di Damocle

Si parte proprio da qui, da Henri Osewoutz, il protagonista assoluto,

viso sproporzionato e glabro, vocetta acuta, statura appena troppo bassa per l’arruolamento nell’esercito, poca istruzione, la madre folle a carico che qualche anno prima gli ha ammazzato il padre e una tabaccheria che, in una cittadina di provincia, gestisce insieme alla moglie-cugina di sette anni più grande di lui

A Osewoutz il destino non sorride già dall’inizio — tra l’altro, viene sedotto dalla cugina, un ulteriore dramma affettivo — ma il destino a volte è come una voragine senza fondo nella quale precipiti senza renderti conto e senza vederne mai la fine.

E il destino gli si presenta davanti nel maggio del 1940, quando con la nazione è occupata dai nazisti, e lui si trova davanti nel proprio negozio un ufficiale neerlandese — tale Dorbeck — un uomo che è identico a lui come “…il negativo di una foto è uguale al positivo…” e che gli chiede di sviluppare un rullino fotografico e spedire le foto a un dato indirizzo.

Di fatto, con questa richiesta Osewoutz viene arruolato nella resistenza neerlandese, guidato dal sempre più misterioso Dorbeck che appare e scompare, assegnandogli missioni drammatiche che Osewoutz, altrettanto misteriosamente, esegue con puntiglio e sangue freddo, salvo poi che tutte finiscono male e nel sangue, macchiandogli l’esistenza e costringendolo, braccato dai tedeschi, a fuggire di continuo.

La sua vita, quindi, diventa un continuo travestirsi e cambiare di identità, nel perfetto e opprimente clima del periodo bellico.

Ma chi è Dorbeck? Perché più passa il tempo e più diventa una entità inafferrabile? Perché chiunque entri in contatto con lui e con Osewoutz, prima o poi, finisce per morire? Perché lo stesso Osewoutz è costretto a subire il male che invece andrebbe riservato a chi lo spinge a tanto?

Hermans, con uno stile minuzioso e puntiglioso, dipinge la sua sottile e acuta trama illustrando gesti, azioni, luoghi, facendoli diventare una pellicola – in rigoroso bianco e nero – destinata a durare nel tempo.

Un libro che parla di guerra ma che non è un libro di guerra, bensì sulla condizione umana, gli eterni dibattiti e le incertezze della vita, il male e gli abissi della mente, dell’anima e del corpo, di certe miserie umane.

Mentre Dorbeck diventa sempre più imprendibile, Osewoutz è destinato alla parte di chi invece resta indietro per coprire, suo malgrado e senza rendersene conto, le tracce lasciate dal fuggitivo.

La camera oscura di Damocle — della quale non racconto più nulla perché è un vero e proprio thriller psicologico da gustare da sé — rappresenta un’opera fondamentale, sicuramente per l’assoluta precisione di una trama all’apparenza assurda ma che l’abilità dello scrittore ripulisce dell’incredibile per consegnarla del tutto realistica e convincente.

La vera forza del romanzo, però, secondo me risiede nel clima di tensione da “tanto non succede nulla, forse” perché è così che ci si sente, procedendo verso la fine: accanto alla didascalica gestione degli eventi, al riproporre più volte un resoconto degli stessi come si volesse condurre per mano il lettore alla soluzione, si genera pian piano quell’atmosfera d’attesa che, pagina dopo pagina, fa desiderare ma anche temere i fatti successivi, come se chi legge sapesse già come andrà a finire e avesse paura appunto di averlo compreso.

Che altro aggiungere?

Altro bel dono fattoci da Iperborea. Senza dubbio.

Buona lettura.

Enzo D'Andrea

Enzo D’Andrea è un geologo che interpone alle attività lavorative la grande passione per la scrittura. Come tale, definendosi senza falsa modestia “Il più grande scrittore al di qua del pianerottolo di casa”, ha scritto molti racconti e due romanzi: “Le Formiche di Piombo” e "L'uomo che vendeva palloncini", di recente pubblicazione. Non ha un genere e uno stile fisso e definito, perché ama svisceratamente molti generi letterari e allo stesso tempo cerca di carpire i segreti dei più grandi scrittori. Oltre che su MeLoLeggo, scrive di letteratura sul blog @atmosphere.a.warm.place, e si permette anche il lusso di leggere e leggere. Di tutto: dai fumetti (che possiede a migliaia) ai libri (che possiede quasi a migliaia). Difficile trovare qualcosa che non l’abbia colpito nelle cose che legge, così è piacevole discuterne con lui, perché sarà sempre in grado di fornire una sua opinione e, se sarete fortunati, potrebbe anche essere d’accordo con voi. Ama tanto la musica, essendo stato chitarrista e cantante in gruppi rock e attualmente ripiegato in prevalenza sull’ascolto (dei tanti cd che possiede, manco a dirlo, a migliaia). Cosa fa su MeLoLeggo? cerca di fornire qualcosa di differente dalle recensioni classiche, preferendo scrivere in modo da colpire il lettore, per pubblicizzare ad arte ciò che merita di essere diffuso in un Paese in cui troppo spesso si trascura una bellissima possibilità: quella di viaggiare con la mente e tornare ragazzi con un bel libro da sfogliare.

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