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Ci si vede all’Obse, di Cilla Jackert

Ci si vede all'Obse
Ci si vede all’Obse

Scrivere di ragazzi, da adulti, è molto difficile. Ne so qualcosa anch’io. Allo stesso tempo è un’esperienza così affascinante che non vorresti mai tornare indietro. Sarà per quel pizzico di bambino–ragazzino che resta dentro ognuno di noi, sarà per quella nostalgia canaglia che ci riporta immancabilmente al tempo trascorso in fretta e furia, senza sapere che stava scorrendo?

Con questo piglio, ho iniziato a leggere Ci si vede all’Obse (edizioni Camelozampa con traduzione di Samanta K. Milton Knowles) e, come per quelle strane premonizioni che nessuno sa spiegare, già sapevo che mi sarebbe piaciuto.

Tutta qui, la recensione? No, che diamine!

Piuttosto, mi va di parlare dello stile fresco e accattivante di Cilla Jackert, cinquantenne svedese con una lunga attività di sceneggiatrice di serie televisive dagli anni ’90 a oggi.

Pluripremiata all’esordio, dimostra di meritare in pieno tante attenzioni.

Ecco, per esempio, un primo punto a favore ce l’ha la sua lingua senza peli, che infarcisce il testo di una gradevole scorrevolezza, magari anche qualche perdonabile parolaccia qua e là – si sa come sono i ragazzi, ogni tanto scappa! – ma in fondo una sincerità e un realismo che ci fa subito voler bene ai personaggi.

Vorremo bene ad Annika, la protagonista simpatica, spigliata, ma anche una gran bugiarda, che si aspetta un’estate fatta di campagna, di giochi, e invece si scontra con un evento imprevisto: la nascita prematura del fratellino, e tutti i problemi connessi.

Molto ruota intorno a questa vicenda, e Annika si ritrova con una madre e un fratellino in ospedale, il papà che stacca la spina con la casa, preoccupato per la loro sorte, lasciando di fatto al nonno l’incombenza di badare alla ragazzina.

Anche il nonno, però, non riesce a tenere il ritmo di Annika, avendo la sua vita e sempre un orecchio al telefono in attesa di buone notizie che tardano ad arrivare.

Come inventarsi l’estate, allora? Al mio paese uscivamo di casa, e subito si apriva un mondo enorme, di quelli che hai un’avventura dietro ogni angolo.

Nella Stoccolma estiva di inizio anni Ottanta, immagino, sia stato un po’ difficile orientarsi, ma di spazi e angoli dovevano essercene a bizzeffe. Così come di gente strana, specie di ragazzini che si fanno chiamare con nomi inventati, e che trascorrono l’estate fuori di casa come piccoli, tremendi vagabondi, con l’unico obbligo di lasciar passare il tempo, di non pensare ai piccoli problemi che li attendono appena tornati tra le mura domestiche.

Ecco, così, saltar fuori dal cilindro Kaja, Foglia, il Finnico, Biscotto, Tobbe, con i quali – nei pressi dell’Obse, il parco dell’Osservatorio di Stoccolma, punto di ritrovo abituale di questa stranissima banda – Annika condivide questa stranissima estate, facendo esperienze nuove e non sempre ortodosse.

I ragazzini, per regola, si conoscono solo per quello che emerge dalla loro vita di strada, perché nel gioco “obbligo o verità”, essi scelgono sempre l’obbligo.

«Verità» disse Annika.

«Però le cose stanno così… non si può scegliere verità». Kaja lo disse come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, anche se aveva appena eliminato metà del gioco.

«E perché?»

«Perché a nessuno importa niente della verità».

Per loro, meglio esibirsi in azioni magari assurde, pericolose, che non sfogare l’istinto e rivelare i problemi per ottenere la comprensione dell’altro.

Nel frattempo, il piccolissimo Rasmus – fratellino di Annika, da lei così battezzato – inizia la dura battaglia per la sopravvivenza, assicuratagli da un’operazione al cuore che alla fine gli salverà la vita.

Il “piccolo cornetto al formaggio”, come lo chiama affettuosamente Annika, è un minuscolo guerriero inconsapevole, capace con la sola presenza di superare l’astio simulato della sorella e di conquistarla in pieno.

Annika trascorrerà così quella che pensa essere la peggiore estate della sua vita. Senz’altro, sarà quella che la vedrà crescere molto più delle precedenti.

C’è un po’ di tutto, in questo libro. C’è il divertimento, ma anche il sorriso amaro, una certa piega di commozione.

C’è un po’ di tutto, appunto.

Come nella vita.

Enzo D'Andrea

Enzo D’Andrea è un geologo che interpone alle attività lavorative la grande passione per la scrittura. Come tale, definendosi senza falsa modestia “Il più grande scrittore al di qua del pianerottolo di casa”, ha scritto molti racconti e due romanzi: “Le Formiche di Piombo” e "L'uomo che vendeva palloncini", di recente pubblicazione. Non ha un genere e uno stile fisso e definito, perché ama svisceratamente molti generi letterari e allo stesso tempo cerca di carpire i segreti dei più grandi scrittori. Oltre che su MeLoLeggo, scrive di letteratura sul blog @atmosphere.a.warm.place, e si permette anche il lusso di leggere e leggere. Di tutto: dai fumetti (che possiede a migliaia) ai libri (che possiede quasi a migliaia). Difficile trovare qualcosa che non l’abbia colpito nelle cose che legge, così è piacevole discuterne con lui, perché sarà sempre in grado di fornire una sua opinione e, se sarete fortunati, potrebbe anche essere d’accordo con voi. Ama tanto la musica, essendo stato chitarrista e cantante in gruppi rock e attualmente ripiegato in prevalenza sull’ascolto (dei tanti cd che possiede, manco a dirlo, a migliaia). Cosa fa su MeLoLeggo? cerca di fornire qualcosa di differente dalle recensioni classiche, preferendo scrivere in modo da colpire il lettore, per pubblicizzare ad arte ciò che merita di essere diffuso in un Paese in cui troppo spesso si trascura una bellissima possibilità: quella di viaggiare con la mente e tornare ragazzi con un bel libro da sfogliare.

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