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Eleanor Oliphant sta benissimo, di Gail Honeyman

Un’esistenza incapsulata in una dimensione di solitudine e diffidenza nei confronti del prossimo.

Questo particolare sentimento non riguarda una persona adulta, avanti con l’età, per questo disillusa e amareggiata per il triste epilogo della propria vita, che guarda al presente rabbrividendo al pensiero di un passato caratterizzato da un vuoto affettivo che risucchia ogni brandello d’anima. La storia di Eleanor Oliphant sta benissimo (Garzanti), raccontata dalla scrittrice scozzese Gail Honeyman, vede come protagonista una ragazza di appena trent’anni, Eleanor, che da circa nove vive, con un senso di normalità, la sua routine fatta di lavoro e di piccoli appuntamenti che si ripetono inesorabilmente ogni settimana che passa.

Colpisce, sin dall’inizio, il senso di lucida logicità che avvolge il pensiero di Eleanor e con il quale la ragazza riesce a dare un’interpretazione a ogni evento che le capita. L’ambiente lavorativo, lei esperta contabile di una piccola società di Glasgow, viene descritto in tutta la sua banalità e noiosa evoluzione, dominato da un’abissale distanza tra la protagonista e i suoi colleghi.

Glasgow
Glasgow

Questa ragazza, appassionata di cruciverba e di cibo preconfezionato, vive con la consapevolezza di non avere nessuna amicizia, nessun contatto all’infuori del mondo lavorativo con il quale, per di più, mantiene un rapporto di totale estraneità. Si è spinti sin da subito ad affezionarsi al personaggio di Eleanor e alla sua straordinaria capacità di godere della propria solitudine, considerata come una calda coperta dentro la quale rifugiarsi. L’assenza di un sano equilibrio tra vita sociale e momenti di solitudine fa capire che dietro questa felice ripetizione di gesti e di appuntamenti si cela un senso di profonda tristezza e di autentico dolore.

Il lettore, pagina dopo pagina, accompagna Eleanor a scoprire la fonte di questo straziante stato emotivo, camuffato durante i fine settimana grazie all’azione rassicurante dell’alcool che entra pian piano e anestetizza ogni spiacevole sensazione.

Gail Honeyman inquadra sin da subito il vero nodo problematico, ossia il rapporto tra Eleanor e la madre, nonché un passato dalle tinte oscure e minacciose. Un incendio, la violenza brutale rimasta impressa sul volto di Eleanor, quella cicatrice sul volto come segno distintivo e come condanna perpetua alla non felicità.

La descrizione della madre, tramite i dialoghi telefonici intrisi di rabbia repressa e dolore appena soffocato, restituisce al lettore l’immagine di una persone completamente distante dalla dimensione emotiva vissuta dalla figlia, una donna brutale nelle risposte e nell’imporre a Eleanor determinati comportamenti. La durezza materna si collega direttamente alla incapacità di Eleanor di provare a relazionarsi con le altre persone.

Gli eventi che seguiranno saranno fondamentali per la rinascita della giovane protagonista. Il superamento di quella condizione avverrà attraverso un dialogo sofferto e pieno di dolore con se stessa che le garantirà di guardare con occhi sereni e meno struggenti al suo passato. La sensazione di sentirsi come un giocattolo rotto che non può essere riparato farà spazio al trionfo di una nuova condizione emotiva, dove il contatto con il prossimo, l’abbandonarsi a un caldo abbraccio, l’inizio di un vero amore, daranno autenticità all’espressione “sto bene […] sto benissimo” che per troppo tempo ha fatto da cornice a un’esistenza fragile e dilaniata dal senso di colpa.

Leggendo questo libro risulta istintivo il paragone con il personaggio di Stoner di John Edward Williams, ma questa volta siamo in presenza di una protagonista che, dopo un lungo e doloroso travaglio esistenziale, riesce ad afferrare la propria vita e a indirizzare il proprio destino verso una condizione di normalità e di emozioni che pulsano.

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