La volpe che amava i libri, di Nicola Pesce
«I giovani già allora non conoscevano più la meraviglia. Ormai, per scoprirla, bisogna prima invecchiare molto, e avere molte delusioni, e non meno di due o tre grossi rimpianti.»
La penna di Nicola Pesce si conferma estremamente riconoscibile.
Come ne Il fiato di Edith, si nota una brutale dolcezza nel suo modo di raccontare una storia. Che sia un romanzo storico o una fiaba (come in questo caso), la delicatezza delle parole scelte non va mai a sormontare o tacitare la sincerità e la pienezza dei concetti. Un equilibrio difficile che non risulta mai né sdolcinato, né ipocrita.
La volpe che amava i libri è ambientato nelle sperdute steppe della Siberia, in un tempo non definito in cui le stagioni e il loro rituale susseguirsi la fanno da padrone. Appartiene a uno strano meta-genere che va a toccare vari generi senza sceglierne nessuno. Personalmente lo definirei una fiaba sulla forza delle storie e di come possano impattare in modi inaspettati sulle anime di chi le ascolta, diverse per indole naturale ed esperienze di vita.
Vi sono altri elementi che ci riportano alla fiaba e sono: l’abilità dell’autore nel chiudere tutti i cerchi narrativi che apre nella prima parte del libro, il ripetersi di situazioni già presentate e il ritorno negli stessi luoghi già visitati dai protagonisti in momenti importanti per la loro crescita.
Si possono portare come esempio, le parole della mamma di Aliosha che rimbombano nuovamente nella tana e pronunciate da Musoritz, l’anziano signore che lasciava i libri alla volpe e il campo di grano in cui la volpe si ritrova da sempre a rimuginare.
È uno di quei libri che colpisce in modo diverso in base alle proprie esperienze di vita, anche se possiamo dire che i tre protagonisti offrono già un ventaglio di caratteristiche in cui quasi tutti noi riusciamo a riconoscerci: la volpe che si sente diversa perché ama qualcosa che nessun altra volpe ama, il topolino perennemente ottimista che ama anche quando sa di ricevere solo odio in cambio e un corvo che ha visto e conosciuto tutti del mondo e per questo odia veder sorgere il sole ogni giorno.
La volpe che amava i libri non è un tomo imponente, anzi, lo si legge in poche ore, ma ha bisogno di tempo per venire “digerito” e compreso fino in fondo.
È una sottile dichiarazione d’amore per la letteratura e il popolo russo. Nel libro ne viene più volte ammirata la capacità di introspezione e la loro tragica tendenza ad agire in tutto e per tutto secondo la parte che la vita gli assegna, anche se tragica.
Proprio con la lingua russa Nicola Pesce ha compiuto delle scelte interessanti. Dal genere neutro di Aliosha (volpe in russo è maschile, mentre in italiano femminile, e questo può creare una leggera confusione), all’uso contenuto, ma scelto, delle espressioni in lingua, questo uso della lingua diventa un merito in più per il romanzo, specialmente grazie alle note a piè pagina che permettono di comprendere appieno anche i giochi di parole più complessi come i nomi dei tre animali protagonisti.
Colpisce la metamorfosi degli animali, soprattutto della volpe protagonista, tra l’ambiente domestico della tana e quello esterno. Più sono all’interno più risultano umani, mentre all’esterno tornano animali. Questa dualità risulterebbe deliziosa in un volume illustrato con uno stile classico e senza tempo come quello di Beatrix Potter o Sybille Von Olfers, che ben si adatta a questo stile di narrazione.
Nel libro sono presenti molte metafore, oltre che moltissime citazioni letterarie. Si può cogliere un richiamo biblico nella storia di Musoritz, che ricalca quasi perfettamente la storia di Giuseppe e i suoi fratelli.
L’autore si è inoltre lasciato andare a diversi neologismi ed errori ortografici che sicuramente sono stati voluti, vista la complessità dell’intero romanzo, per poter rendere più realistico l’approccio “animale” alla scrittura.
Mi è entrato particolarmente nel cuore un breve dialogo sull’amore in cui secondo me il libro mostra uno dei suoi temi più importanti: l’amore ha tante sfumature quanti sono gli esseri che lo provano.
Poetico a dir poco.
«Come per ogni vera creatura russa, oltre il pavimento dei propri desideri più forti e radicati c’era sempre l’abisso del loro opposto, dietro ogni solitudine il desiderio di essere voluti bene, dietro ogni sforzo per avere successo la profonda e perversa voglia di fallimento, dietro ogni virtù l’abisso della perdizione e viceversa.
E così, in quella terra, le creature più nobili erano quelle perdute, e i santi erano grandi peccatori, mentre gli ubriaconi erano puri come statue di luce.»
Libro interessante… Meritevole di una seconda lettura