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Recensione: Livelli di vita, di Julian Barnes

Livelli di vita
Livelli di vita

Livelli di vita.
In alto.
In basso.

Tre storie d’amore, dal cielo alla terra, dal volo all’atterraggio – o al precipizio – per raccontare il lutto per la perdita della moglie. Un libro, quello di Julian Barnes (Einaudi, traduzione di Susanna Basso), che è un’analisi lucida e concreta del dolore, all’interno della quale, però, tutto sembra essere meravigliosamente sospeso: nel tempo, nello spazio, nell’aria; un libro che somiglia molto alle mongolfiere delle quali racconta, che violano lo spazio riservato a Dio ma sono legate al loro destino dalla zavorra che portano a bordo.
Un trattato sulla mancanza. E sull’amore:

Siamo creature destinate al piano orizzontale, a vivere coi piedi per terra, eppure – e perciò – aspiriamo a elevarci. Da spettatori terragni quali siamo, qualche volta ci è dato di raggiungere gli dèi. Alcuni di noi lo fanno attraverso l’arte, altri con la religione; nove su dieci, con l’amore. Ma se è vero che possiamo elevarci, allo stesso modo possiamo precipitare. Non sono molti gli atterraggi morbidi. Ci può succedere di rimbalzare sulla terra, trascinati da una violenza spaccaossa che ci abbatte lungo una linea ferroviaria straniera. Ogni storia d’amore è potenzialmente anche storia di sofferenza, Se non subito, in un secondo tempo. Se non per l’uno, per l’altro. Per tutti e due, qualche volta. Ma allora perché non facciamo che ambire all’amore? Perché l’amore è il punto d’incontro tra verità e prodigio. Verità, come nella fotografia; prodigio, come nel volo aerostatico.

Filo conduttore del racconto è proprio la metafora del volo, soprattutto nella prima parte della storia, nella quale la narrazione delle vicende di personaggi accomunati dalla passione per i viaggi in cielo – Fred Burnaby, pioniere dell’ascesa in pallone aerostatico, perdutamente innamorato della volubile attrice Sarah Bernhardt; Nadar, al secolo Félix Tournachon, celebre ritrattista e inventore della fotografia aerea, legato alla moglie da un sentimento invincibile – è affidata alla terza persona singolare; all’ultima parte – destinata alle parole di uno scrittore che, anche attraverso le vicende dei personaggi appena citati, analizza il dolore per la scomparsa delle propria compagna dopo 30 anni di vita insieme – è riservata, invece, la prima persona singolare.
Netta divisione tra finzione e realtà.

Stratificazioni.
Livelli di testo.
Livelli di sofferenza.

Nelle pagine finali è l’io di Barnes a parlare, a condurci nella parte autobiografica del volume, accomunata alle altre due dall’incipit che accompagna ogni capitolo: “Metti insieme due cose che insieme non sono mai state”. Quello che muta, ogni volta, è la formula che fa seguito a quella frase nelle tre sezioni del libro: “E il mondo cambia”; “A volte funziona e a volte no”; ma, soprattutto, “qualche volta è come quel primo tentativo di imbrigliare un aerostato a idrogeno su uno ad aria calda: che cosa preferisci? Precipitare e prendere fuoco, o prendere fuoco e precipitare?”.
Credo sia proprio quest’ultima domanda a far comprendere al lettore come le avventure romanzesche dei viaggi in mongolfiera e delle passioni di Burnaby e Nadar, apparentemente slegate dalla parte più intima del libro, servano a Barnes per porre la giusta distanza dai fatti inerenti le sue vicende personali prima di metterli a nudo. Prima di restituire a chi legge, e a se stesso, forse, una parte di sé privata ed autentica.
Quello che vien fuori è una sorta di Gestalt del sentimento guidata dalla consapevolezza che ciò che manca è “molto più che la somma di ciò che c’era”. Un confronto franco, sincero, a tratti spietato dell’autore con l’elaborazione del lutto. E, più in generale, con l’amore. Con il modo in cui riesce ad influenzare ogni esistenza; ogni età:

Nella prima parte della vita, il mondo si divide grossolanamente tra chi ha già fatto sesso e chi no. Più avanti, tra chi ha conosciuto l’amore e chi no. Più tardi ancora – se si è fortunati, almeno (o forse sfortunati, in realtà) – si divide tra chi ha vissuto il dolore e chi no.
Si tratta di differenze assolute; di Tropici che attraversiamo.

Di nuovo livelli. Proprio come accade ne Il senso di una fine – valso all’autore il Man Booher Prize, il più prestigioso premio letterario inglese –, anche di memoria:

Tra le poche certezze che mi rimangono nella vita c’è quella che niente più segue uno schema, perciò sono scettico. E così mi sembra che lei si allontani da me una seconda volta: prima la perdo nel presente, e poi la perdo anche nel passato. La memoria, l’archivio fotografico della mente, sta venendo meno.

Livelli che restituiscono al lettore una pagina autobiografica struggente, all’interno della quale immedesimarsi o sperare di non farlo mai.
Livelli che rendono agli occhi il loro potere.
Attraverso l’osservazione dall’alto, la fotografia.
O, inevitabilmente, come per Orfeo, attraverso l’amore:

Perdere un mondo per uno sguardo? Certo che sì. Il mondo esiste per questo, per essere perduto, date le debite circostanze. Come avrebbe potuto chiunque tenere fede alla promessa fatta, sentendo la voce di Euridice alle proprie spalle?

 

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