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I giorni dell’ombra, di Sara Bilotti

Dove erano finiti tutti i miei anni, tutti i giorni, le ore, i minuti?

Qualcuno doveva avermeli rubati

I giorni dell'ombra
I giorni dell’ombra

Claustrofobia. Nella normalità.

Claustrofobia e il suo esatto contrario, negli affetti che macerano, nei sorrisi che non risanano, nella bontà che non sa farti bene. Nelle parole incastrate tra anima e foglio nell’ennesima prova d’autrice di Sara Bilotti, nera, nel terrore di uno spazio troppo immenso che non restituisce ossigeno, tra le pagine de I giorni dell’ombra (Mondadori).

La costruzione del giardino di perfetta quotidianità che ci disegna intorno, mentre noi lettori scivoliamo piano tra le pieghe dei suoi giorni, sospesi, nell’attesa di capire cosa accadrà, come si muoverà Vittoria, come riempirà gli spazi del dubbio e della solitudine, quella che costruisce da sola, quella che le piomba intorno.

Dov’è Lisa? Quell’amica che sa stringerla o forse solo specchiare nei suoi occhi il suo ego. Dove finiscono le voci che nessuno raccoglie?

Torna una penna affilata, torna un’autrice che aveva saputo mettere in piedi altre costruzioni sfidando il mondo con la potenza della sua abilità di narratrice. Torna più forte di prima a costruire castelli di ombre che vacillano sulla realtà, costantemente sospesi su un filo di sanissima e distruttrice follia.

Siamo coinvolti, siamo colpevoli, siamo spettatori immobili di una storia che spinge in fondo a un abisso colmo di paure altrui che sanno mescolarsi con le nostre. Catturandoci fino all’ultima riga.

Daniel è uno scrittore di successo, un uomo sempre padrone di sé e delle sue reazioni.

Ma chi può essere davvero sicuro delle proprie reazioni?

Sara Bilotti è abile: la sua non è mai solo scrittura: è immagine, forma palpabile. Non c’è distanza in quest’immersione, non c’è un limite a separare chi legge, chi scrive e chi vive. Ci si ritrova in uno stato di allerta perenne, spettatori di una storia che scivola sotto la pelle fino ad appartenerci.

Sara Bilotti è tanto abile da far credere di poter agire sui destini di tutti, ciascuno con i suoi segreti da tenere chiusi a chiave. Non è solo tensione o semplice timore di ciò che potrebbe accadere: la sua penna sa scavare nei dolori nascosti, nelle pieghe dell’anima, scarnificare attraverso la parola il ricordo ancestrale e ridurre l’amore filiale a piccoli pezzetti da ingoiare e proteggere; la sua penna sa far confondere uno schiaffo con una carezza solo perché si possa avere l’impressione di essere vivi, sentirsi vivi.

E non è forse questo quello che cerchiamo, in fondo? La vita, in ogni sua forma, la vita in ogni suo gesto, l’attenzione che ci tramuta in esseri umani quando siamo il fantasma di noi stessi?

Non è solo Lisa, a mancare, non è solo la sua ricerca a scoperchiare orribili verità: siamo noi stessi a interrogarci sul significato di ogni bisogno, di ogni affetto, di ogni cambiamento che – illudendoci – crediamo ci salverà. Così Vittoria affronta le sue paure e i suoi dolori per se stessa, per l’amica di cui in qualche modo completa la vita assente, rasentando i muri come ombra in giorni infiniti e passando tra le braccia strette al petto e le mani contro il viso a proteggersi da una carezza dolorosa allo spalancare gli occhi sugli orrori delle bassezze umane e le gambe sulla quiete apparente di un desiderio strappato, mai salvifico.

Accanto e lontano, una madre chiamata per nome, come per levarle l’ultimo baluardo di un affetto inafferrabile, abituarla al nulla e al dolore che annulla. Nello spazio di quei metri quadrati si respira a tratti, sul collo il fiato di un padre crudele che sembra sussurrare la colpa e il perdono: “Non avrai altro Dio all’infuori di me”. Padre amatissimo, lui centro di tutto, fulcro di un mondo da sgretolare per trovare il senso del tutto, padre col potere di decidere con una mano di farti soccombere sotto i suoi colpi. Vittoria resiste nonostante la paura, nonostante la rabbia che sbatte da una parete all’altra; veste e sveste i panni di se stessa dividendo l’esistenza in giornate scivolate e filtrate in una dimensione che somiglia a un lungo, perenne, sonno.

Ecco l’abilità della scrittrice: sa come spingere la testa del lettore sott’acqua, creare voglia d’aria, confondere i desideri, insinuare il dubbio se sia meglio restare o fuggire, lasciando alla realtà quell’apparenza di dolorosa normalità.

Leggerete d’un fiato, come andando in apnea, e vi mancherà ogni parola, in bilico nello spazio asfissiante del sentimento sbagliato. Penserete: “da qui, non uscirà vivo nessuno”. E avrete paura che quella possa essere l’unica via di liberazione.

Stefania Castella

Mi chiamo Stefania e sono nata a Napoli da padre con occhi trasparenti e madre con lunghissimi capelli biondi e gonnellone hippy. Non so perché ve lo dico, solo perché tutti scriviamo dove nasciamo e nessuno da chi. Sono grafica pubblicitaria e soprattutto mamma a tempo pieno e indeterminato. Scrivo da quando ho imparato, leggo da sempre e ascolto da molto di più. Mi piace leggere e raccontare storie, dare voce. Scrivere è la mia esigenza, la mia necessità. Mi piace raccontare ciò che ho letto cercando di trasmettere l'emozione che ho provato, lasciandovi entrare nel viaggio che ogni scrittore regala. Se questo si chiama recensire, allora recensisco. Cosa fa su MeLoLeggo? Quello che amo fare: immergermi in una storia di carta, con rispetto e onestà, affiancandomi con voi alle pagine e percorrendo lo stesso bellissimo sogno. Ogni scrittore partorisce le sue creature con amore e fatica, quello che possiamo fare è raccogliere la sua storia. Se una storia non piace non si può stroncarla, solo evitare di raccoglierla, no?

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